Diritto all’oblio. Come e perché può fallire
Le richieste di rimozione di link negativi per il famoso “diritto all’oblìo” non sempre funzionano. Ecco come, e soprattutto perchè, le domande di cancellazione, pur se giustificate, possono fallire.
La reputazione online ha acquisito un’importanza preminente nella società odierna, poiché sempre più persone usano internet per valutare l’affidabilità di qualcuno prima ancora di instaurare un primo contatto con un professionista, un’azienda o un servizio.
Va da sé che la presenza di contenuti negativi, soprattutto sotto forma di articoli di giornale, può avere conseguenze devastanti, compromettendo i propri rapporti con fornitori o clientela, ostacolando le opportunità lavorative, portando al fallimento di colloqui per ottenere lavoro, arrivando anche a impedire la semplice apertura di un conto corrente.
Crisi reputazionali che possono stravolgere anche la propria vita personale: contenuti negativi, non solo su grandi testate nazionali ma anche su piccoli quotidiani locali, comportano notevoli danni anche alla sfera privata dell’individuo.
La possibilità di rimuovere tali contenuti attraverso il diritto all’oblio assume così un ruolo fondamentale, salvifico in alcuni casi.
In passato, pur esistendo il concetto di diritto all’oblio sotto forma di principio giuridico teorico, mancava effettivamente una legislazione chiara e quanto appariva nelle pagine dei risultati di Google sembrava destinato a permanere all’infinito.
Nel 2009 la svolta. Un piccolo imprenditore spagnolo, Mario Costeja González, scoprì, digitando il proprio nome su Google, dei risultati relativi al pignoramento di una casa di sua proprietà datati al 1998.
Considerando queste informazioni ormai obsolete, intentò una causa contro Google, non solo compiendo un’azione legale che ai tempi sembrava quasi avveniristica, ma ottenendo il favore dei giudici. La sentenza, evidentemente, espresse un bisogno di aggiornamento della legislazione che andava accumulandosi da anni.
Il parere dei giudici, ormai entrato nella storia della giurisprudenza, portò, per la prima volta all’effettiva rimozione di risultati dalle pagine di Google per iniziativa di un privato.
Come detto, il caso González incarnava un bisogno di cambiamento e di aggiornamento sotto l’aspetto normativo. Google, infatti, a poche settimane dalla sentenza, rese disponibile un modulo tramite il quale chiunque poteva richiedere la rimozione di link che citavano i propri dati sensibili, qualora fosse stato applicabile il diritto all’oblio.
Tale cambiamento portò effettivamente una ventata di novità nel settore della reputazione online e offrì nuove opportunità alle persone che desideravano tutelare la propria immagine digitale.
Tuttavia, il modulo di Google, oltre a non essere conosciuto dalla gran parte degli utenti, non rappresenta certo la soluzione a tutti i mali.
Nonostante la presenza di una via di comunicazione con i dipartimenti di Google, molte persone commettono errori che ostacolano il riconoscimento del diritto all’oblio, pur potendone teoricamente beneficiare.
Nel presente articolo, analizzeremo le principali motivazioni che conducono al fallimento di tali richieste, basandoci sull’esperienza degli esperti di Trizio Consulting, i quali si confrontano giornalmente con tali problematiche.
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Mancanza dei tempi minimi
In primo luogo, un motivo frequente di insuccesso è rappresentato dalla presentazione della richiesta di rimozione in maniera prematura. È opportuno ricordare che il diritto all’oblio (n. 196 del 2003) trova applicazione solitamente in un periodo compreso tra i 2 e i 5 anni dalla conclusione del processo.
Coloro che richiedono la rimozione mentre sono ancora oggetto di indagini, hanno subìto un recente arresto o hanno un procedimento giudiziario ancora in corso, non hanno alcuna speranza di ottenere il riconoscimento del diritto all’oblio. È necessario rispettare scrupolosamente i termini stabiliti dalla legge, al fine di presentare una richiesta valida e incrementare le probabilità di successo.
Mancanza dei corretti riferimenti legali
Altro ostacolo al successo della propria domanda risiede nella complessità del modulo stesso. Fare riferimento in maniera vaga alla legge del proprio paese non è assolutamente sufficiente.
La compilazione richiede un’accuratezza elevata e, sovente, necessita della citazione precisa della normativa del proprio paese che giustifichi la rimozione dei contenuti.
È indispensabile citare con precisione e in modo dettagliato la norma giuridica specifica che sostiene la richiesta di rimozione. Questo anche alla luce del fatto, che i responsabili incaricati di valutare tali richieste non sono algoritmi, ma esseri umani, chiamati ad orientarsi tra i regolamenti di diversi paesi, e in una pluralità di situazioni davvero ampia.
Dunque è essenziale fornire informazioni specifiche e dettagliate per agevolare il processo di analisi e aumentare le probabilità di ottenere una rimozione adeguata.
Invio multiplo di richieste di deindicizzazione
Un errore comune, e spesso compromettente, consiste nella ripetizione della richiesta, sempre attraverso lo stesso modulo.
Pur se possibile inviare ripetute domande o sollecitare una pratica già aperta, è necessario capire che i dipartimenti legali di Google non si comportano come un servizio clienti, nel quale la frequenza delle chiamate si traduce in un’alta priorità. Al contrario, essi operano seguendo regole interne ben definite per limitare i solleciti.
Inviare richieste ripetute non fa altro che intasare i dipartimenti di Google e peggiorare la situazione. Di solito, dopo tre richieste in un lasso di tempo relativamente breve, Google impiega circa un mese per riesaminare la pratica.
È molto più efficace inviare una singola richiesta, redatta in modo impeccabile, e seguire scrupolosamente la procedura, avendo una solida conoscenza della legge vigente nel proprio paese e delle policy adottate da Google.
Mancanza di documentazione correttamente formattata e inoltrata
Un ulteriore motivo per cui numerose richieste falliscono riguarda la possibilità che Google richieda documentazione aggiuntiva. È importante comprendere che il motore di ricerca non è in grado di valutare autonomamente se un individuo possa beneficiare del diritto all’oblio, anche se ai nostri occhi appare del tutto evidente.
Ai fini del rispetto delle leggi europee, Google necessita dell’inoltro di documenti legali che consentano di accertare se un procedimento si sia concluso a favore del richiedente o, in caso di condanna, se sia trascorso un lasso di tempo sufficiente a rientrare nei termini del diritto all’oblìo.
Spesso, le persone non sanno come presentare e formattare correttamente la documentazione. In molti casi, gli utenti inviano i documenti ad un generico indirizzo email di supporto di Google, facendo riferimento nell’oggetto e nel messaggio al numero di pratica che viene generato immediatamente dopo ogni richiesta.
Questo rappresenta un errore, poiché da un lato gli uffici di supporto di Google non sono destinati a ricevere né vagliare questo tipo di documentazione, dall’altro il vero reparto dedicato all’analisi delle richieste di rimozione dei link rimane privo dei dati necessari per valutare il caso.
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Diffide accluse alla richiesta di deindicizzazione
Un altro motivo che può portare al fallimento delle richieste di rimozione riguarda diffide o, a volte, minacce. Molti utenti ritengono che promettere a Google azioni legali o sottolineare tramite diffida la loro responsabilità comporti un’attenzione maggiore e una superiore velocità nell’elaborazione della pratica. Tuttavia, ciò non accade.
Se un dipartimento di Google riceve una serie di diffide, indicate peraltro in un modulo dal valore legale, quale è quello disponibile online, è istruito a passare la pratica al proprio ufficio competente, interrompendo così la valutazione del diritto all’oblio e la rimozione dei link.
Ciò comporta il trasferimento della pratica a un altro dipartimento che, qualora non riceva effettivamente una diffida o la citazione da parte di uno studio legale, non intraprenderà di sua iniziativa alcuna azione.
Alla luce di queste motivazioni, diventa evidente che l’ottenimento del diritto all’oblio richiede una serie di competenze e conoscenze specifiche.
È imprescindibile possedere anzitutto una conoscenza approfondita della deontologia giornalistica per discernere quando un articolo, un dossier o un report abbia i requisiti necessari per essere rimosso.
In secondo luogo, è necessaria una competenza ampia e aggiornata sotto l’aspetto legale, oltre che una comprensione dettagliata delle procedure specifiche di Google.
Case History 1: Un professionista del settore sanitario
Un noto medico, la cui reputazione era stata danneggiata da articoli di giornale negativi che riportavano accuse infondate su di lui, decise di richiedere la rimozione dei link in base al diritto all’oblio. Tuttavia, nonostante avesse inviato diverse richieste a Google, non ottenne alcuna risposta positiva e la sua reputazione continuava a essere compromessa.
A questo punto, il medico decise di rivolgersi a Trizio Consulting, favorevolmente impressionato dal nostro tipo di comunicazione, che esprime correttamente l’esperienza maturata.
Una prima analisi rivelò chiaramente che il cliente aveva compiuto, sicuramente in buona fede, degli errori: in particolare, l’approccio con cui aveva elaborato la richiesta, focalizzato più a esprimere i danni professionali subiti che ad identificare con precisione i contenuti per i quali si richiedeva la rimozione. Inoltre, il reiterato invio di richieste aveva rallentato la fase di analisi da parte di Google.
Gli esperti di Trizio Consulting iniziarono analizzando attentamente la situazione, valutando la normativa vigente e le procedure specifiche di Google.
Trizio Consulting sviluppò quindi una strategia personalizzata per il suo caso. In primo luogo, furono raccolte dettagliate informazioni sulla normativa nazionale relativa al diritto all’oblio, identificando le specifiche leggi che avrebbero supportato la rimozione dei link.
Successivamente, furono elaborate richieste precise e ben formulate, includendo i riferimenti normativi appropriati e i dettagli necessari per supportare la richiesta. Anche grazie alla consulenza degli studi legali associati, furono approntati i documenti che potevano comprovare la nostra richiesta e le diverse circostanze del suo caso.
Grazie all’esperienza di Trizio Consulting, che si è espressa anche nel saper attendere i tempi necessari nonostante le giustificabili pressioni del cliente, Google prese in considerazione le richieste, valutando l’applicazione del diritto all’oblio nel contesto specifico. Dopo un’attenta analisi, Google accettò finalmente la richiesta e i link negativi furono rimossi dai risultati di ricerca, sia in Italia che in tutte le versioni europee del motore di ricerca.
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Case History 2: Un imprenditore danneggiato da articoli diffamatori
Un noto imprenditore si trovava in una situazione di crisi reputazionale, in cui la sua immagine era stata gravemente compromessa da articoli diffamatori pubblicati online, molti dei quali con l’appoggio di studi concorrenti che avevano chiaramente attuato pratiche scorrette.
Aveva cercato di ottenere la rimozione dei link attraverso le richieste inviate a Google, ma senza successo. La sua reputazione continuava a essere danneggiata e i suoi sforzi per ripristinare l’immagine pubblica sembravano vani.
Decise quindi di rivolgersi a Trizio Consulting, alla ricerca di una soluzione efficace per ripristinare la sua reputazione. Gli esperti di Trizio Consulting condussero un’approfondita analisi del caso dell’imprenditore, esaminando attentamente gli articoli diffamatori, la normativa pertinente e le procedure di Google già in essere.
Trizio Consulting si accorse questa volta che il problema fondamentale risiedeva nella richiesta di rimozione dei link, sempre per il diritto all’oblio. In alcuni casi gli articoli, di pubblicazione recente, non potevano beneficiare della normativa.
Per questo motivo, il team divise il lavoro tra richieste di rimozione dei contenuti inoltrate direttamente ai webmaster e ai responsabili legali delle piattaforme, e una nuova domanda formale presentata ai dipartimenti di Google per tutti i contenuti che potevano oggettivamente essere gestiti dal motore di ricerca.
In entrambi i casi, Trizio Consulting svolse un ruolo cruciale nel garantire il successo delle richieste di rimozione dei link. La conoscenza approfondita della normativa, delle procedure di Google e delle tecniche di presentazione delle domande, permisero di raggiungere gli obiettivi in un tempo complessivo di circa 45 giorni.